Una chiacchierata con Giulia Campinopoli, studentessa di Medicina e Chirurgia nel nostro Ateneo, partita per l’Uganda la scorsa estate
Classe 2002, 22 anni ancora per qualche mese, mille cose fatte, e milleuno sogni ancora ‘nel cassetto’. Un cassetto che non smette mai di riempirsi quello di Giulia Campinopoli, studentessa al V anno di Medicina e Chirurgia presso la sede romana dell’Università UniCamillus, che vanta di essere stata la prima studentessa di Medicina in assoluto a partire in missione con Emergency in tutta la storia dell’associazione.
Prima di iniziare a farle domande, ci aspettavamo delle risposte estremamente commoventi, considerando soprattutto l’argomento inerente a missioni umanitarie per aiutare le persone che nel mondo sono meno fortunate. E invece no! Giulia è riuscita a trasmettere una passione ed un entusiasmo che hanno sventato ogni aspettativa “malinconico andante”, parlando di un popolo forte dei propri valori, di una neonata minuscola che ha combattuto con le unghie e con i denti per sopravvivere, di colleghi provenienti da tutto il mondo che sono diventati nuovi amici, e di tantissimi progetti che ancora devono definirsi a perfezione, ma che hanno tutti un comune denominatore: un ricircolo di amore e gratitudine tra l’essere umano e tutto il resto del mondo.
Ma andiamo per ordine. Giulia crede che la vita sia troppo bella per viverla solo per sé, e da bambina si dedica ad attività di volontariato: dagli 8 ai 19 anni frequenta un gruppo scout, con cui aiuta varie associazioni per supportare chi è meno fortunato. Oltre a ciò, sceglie Medicina e Chirurgia a UniCamillus proprio per lo stampo umanitario del nostro Ateneo. Arrivata al IV anno di Medicina, comincia ad entrare nella pratica clinica dei tirocini, ed è lì che si sente pronta a partire per una missione umanitaria all’estero.
Com’è nato questo progetto di andare in missione umanitaria in Uganda?
«Tutto è nato da questa forte esigenza che avevo di partire per dare qualcosa di bello e di mio al mondo. La mia fortuna è stata quella di incontrare il Prof. Giuseppe Ippolito (docente di Malattie Infettive presso l’Università UniCamillus, ndr), che ha dato ascolto a ciò che avevo da dire, ma soprattutto da dare, alle mie motivazioni, ai miei obiettivi. È stato così che mi ha messo in contatto con l’ong Emergency, per cui alla fine, dopo aver insistito un po’, sono riuscita a partire».
E una volta partita? Raccontaci un po’…
«Sono partita da Roma il 23 agosto 2024, per tornare il 30 settembre. Sono partita da sola, e sono arrivata ad Entebbe, in Uganda, presso il Children’s Surgical Hospital, l’ospedale pediatrico Emergency dove ho vissuto la mia avventura.»
Un ospedale pediatrico Emergency? Spiegaci meglio!
«Certo! Il Children’s Surgical Hospital di Entebbe è stato aperto da Emergency nel 2021, ed è nato con l’obiettivo di offrire cure chirurgiche gratuite a bambini che, altrimenti, non avrebbero accesso a trattamenti adeguati. L’ospedale non solo offre trattamenti salvavita, ma rappresenta anche un rifugio per tante famiglie che provengono da zone remote o da altri Paesi, grazie alla possibilità di alloggiare gratuitamente in una Guest House dedicata. Questo spazio non è solo una struttura sanitaria, ma una vera e propria missione umanitaria, che va oltre la cura fisica dei bambini, cercando di migliorare le loro opportunità di vita in un contesto in cui le risorse sono scarse».
E tu ti sei occupata di qualcosa in particolare?
«In realtà, nonostante fossi una studentessa, mi hanno dato molto spazio di autogestione, probabilmente perché hanno subito capito che sono una persona molto responsabile. Ero libera di girare in tutti i reparti dell’ospedale, ovviamente mettendoci d’accordo sui turni e comunicando la mia presenza in modo che qualcuno mi supervisionasse. Partecipavo sia ad attività cliniche che di ricerca. Le mie giornate avevano un orario lavorativo normale, dalle 8 alle 18 circa: finché c’era attività clinica, restavo lì con medici e specializzandi».
Tu cosa preferivi? L’attività clinica o quella di ricerca?
«Con questa esperienza ho capito tanto di me, anche dal punto di vista professionale. Stando lì ho compreso che non voglio fare il chirurgo ma che voglio dedicarmi proprio alla ricerca. Lì hanno tantissimi progetti da mandare avanti, e io ho partecipato a tre di essi: due di tipo clinico, uno di tipo amministrativo.»
Quindi lì hai capito anche cosa vuoi fare da grande. E dal punto di vista umano? C’è qualcosa o qualcuno che non dimenticherai mai?
«È difficile scegliere, perché lì ho conosciuto delle persone davvero stupende: sia il personale Emergency “local”, ossia i colleghi ugandesi, con cui avevamo uno splendido rapporto, sia gli expat, ossia italiani ed europei presenti lì. Questo mi ha permesso di vivere questa esperienza con una serenità impagabile, e non era scontato, considerando che sono una semplice studentessa che ha passato tutte le sue giornate in un ospedale. Nonostante io fossi la più piccola, mi sono sempre sentita ben accolta e parte del gruppo: potevo chiedere qualsiasi cosa, e trovavo sempre persone disposte ad ascoltarmi, a darmi consigli e ad aiutarmi a migliorare.
Tuttavia, se devo parlare di un episodio in particolare, non posso che citare Faith, la paziente più piccola dell’ospedale: la sua vita per due mesi è stata davvero appesa ad un filo!»
Parlaci di Faith allora!
«Faith è stata ricoverata in ospedale qualche giorno prima che arrivassi io, ed è stata dimessa qualche giorno dopo la mia partenza, quindi per me è stata un punto di riferimento fisso. Appena nata, Faith ha sviluppato una patologia chiamata enterocolite necrotizzante. Lo stadio, nel suo caso, era davvero avanzato, per cui in un ospedale locale è andata incontro ad una procedura chiamata stomia, ossia le hanno tolto la parte dell’intestino ormai necrotica. Probabilmente, però, dopo questa operazione l’intestino era diventato troppo corto, e la piccola non metabolizzava più nulla, andando incontro a deperimento. È arrivata nel Children’s Surgical Hospital di Entebbe che aveva 20 giorni di vita e non era in grado di digerire nulla. È stato molto difficile affrontare questo caso, perché la bambina era davvero minuscola, e non poteva essere subito rioperata. Per questo abbiamo prima cercato di farle prendere peso per rimetterla in forma e, dopo circa un mese e mezzo, le hanno fatto una chirurgia secondaria di revisione della stomia, in modo che Faith potesse essere in grado di digerire da sola gli alimenti assunti. Ora Faith è sana e salva e vive a casa sua con la sua mamma. Lei mi è rimasta davvero impressa, perché era la più piccola tra tutti i pazienti, ed era un po’ la figlioletta di tutti. Tuttora sono in contatto con alcuni medici rimasti lì, e sempre chiedo loro “Come sta Faith?”»
Cosa ti ha colpito delle persone del posto?
«Gli Ugandesi sono persone buone, genuine! Lì la povertà è un problema tangibile, almeno rispetto agli standard a cui siamo abituati noi. Tuttavia, nonostante ciò, sono comunque persone che trasmettono un forte senso di serenità, tranquillità, sicurezza. A Roma ho paura di girare durante la notte, lì non mi sono mai sentita in pericolo!
Questa esperienza mi ha fatto davvero riflettere su molti ideali e principi, e ho rivalutato quali sono davvero le cose importanti nella vita. È vero, sono stata lì solo un mese e mezzo, ma credo che vi siano delle emozioni fortemente impattanti. Appena sono arrivata lì ho pensato “Ok, il mondo in cui ho vissuto finora è solo una parte del mondo, e le persone con cui ho interagito finora sono solo una minima parte di tutte le persone che esistono”. Ed è stato bellissimo ricredermi su tante priorità che pensavo di avere. Lì le persone hanno davvero poco a livello materiale, ma ti danno tutto, e vige una gratitudine che da noi è abbastanza carente: per esempio, i genitori dei bambini erano estremamente riconoscenti nei nostri confronti, anche semplicemente se facevamo ai piccoli una carezza sulla testina. È stata un’esperienza emotiva davvero fortissima: a Roma sono tornata completamente “nuova”!»
Ci sono state differenze culturali con cui hai avuto difficoltà ad entrare in contatto?
«In realtà no! Ho avuto la fortuna di entrare in un mondo di medici expat che erano lì da mesi, e che erano completamente integrati con la cultura locale, con l’abbigliamento, con il modo di interagire. Loro mi hanno permesso di conoscere le usanze del luogo in modo naturale: non ho avuto alcun problema ad adattarmi, né mi sono mai sentita a disagio.»
Perché pensi di essere stata scelta come prima studentessa a partire per una missione Emergency?
«Credo per la mia motivazione: per me era un sogno partecipare ad una missione umanitaria. Non solo: ho scelto l’Università UniCamillus proprio per il suo stampo internazionale, per la sua Terza Missione e perché si tratta di un Ateneo volto all’aiuto delle popolazioni più bisognose. Io ho davvero desiderato un’opportunità del genere, avrei fatto qualunque cosa perché accadesse!»
Una motivazione che arriva dritto all’obiettivo! È da tanto che senti questa propensione all’aiuto del prossimo?
«Sì, credo di esserci nata. Io credo fortemente che ognuno di noi abbia tantissimo da dare, e so quello che io posso offrire. Penso e spero di aver fatto del bene in questa occasione, ma non voglio fermarmi: anche in futuro spero di fare sempre del mio meglio per mettermi al servizio dell’umanità. Essere studente di medicina vuol dire dedicare gran parte del proprio tempo per diventare un professionista che salvi e curi la salute degli altri. Fare del bene al prossimo è la diretta conseguenza di questa vocazione, e io ci credo con tutta me stessa. Non è un caso che, oltre a studiare Medicina presso UniCamillus, sono anche al II anno di Psicologia presso La Sapienza: mi piace conoscere l’animo umano, e fa tutto parte del mio percorso, di studi e personale. Una sorta di big picture del mio obiettivo di vita.»
Sicuramente non tutti sono dotati della tua generosità e apertura al mondo. Ma, a prescindere da questo, credi che queste esperienze debbano far parte del bagaglio di un medico?
«Secondo me sì, ma si tratta anche di qualcosa che devi sentire dentro, nel cuore. Credo che molte persone che studiano qui abbiano scelto UniCamillus per la sua Terza Missione e per l’accento umanitario e, come ho già detto, la mia motivazione è stata principalmente questa! Sicuramente partire per una missione come questa porta allo studente molti vantaggi personali e professionali: si conoscono nuove patologie, nuovi metodi di cura, nuove linee guida; ci si interfaccia con una realtà totalmente differente, interagendo con persone abituate a lavorare in un modo completamente diverso; ci si scioglie nelle interazioni umane, e lo spirito di adattamento ne risente in positivo. Dal punto di vista umano, però, credo che, per vivere questa esperienza al 100%, dunque per essere in grado di fare del bene al 100%, occorre essere fortemente motivati: lì ci sono expat che vivono lontano da casa anche per due anni consecutivi, e per loro sicuramente non è facile, ma sono motivati a farlo, e per loro questa esperienza non è deprivante, ma arricchente! La vocazione che hanno è così forte che fanno del bene col sorriso, e questo è quanto di più umano (nel senso più bello!) possa esistere.»
Deduco che ripeteresti l’esperienza…
«Assolutamente sì! In Africa di sicuro, ma vorrei andare un po’ ovunque.»
Stiamo concludendo questa chiacchierata. Alla fine, in genere, ci sono i ringraziamenti. Ne hai qualcuno da fare?
«Ringrazio tutti coloro che sono stati coinvolti nell’opportunità che mi è stata data. Ringrazio il Rettore Gianni Profita, che ha permesso che un’iniziativa del genere fosse possibile. Ringrazio il Prof. Ippolito, che mi ha ascoltata e ha compreso la mia esigenza di vivere questa esperienza. Ringrazio Emergency e la sua Presidente Rossella Miccio, che non solo mi hanno dato l’opportunità di realizzare un sogno, ma che mi hanno permesso di conoscere tantissime persone meravigliose, che hanno reso la mia permanenza lì indimenticabile. Sono una persona diversa rispetto a quando sono partita, e considero quanto ho vissuto lì come un valore fondamentale nel mio percorso, sia accademico che umano. Io credo che bisognerebbe incentivare esperienze del genere! So che non è facile perché, in un contesto in cui il paziente è l’obiettivo delle cure, non sempre è facile inserire la presenza di uno studente da formare. Tuttavia so anche che, soprattutto in questa università, vi sono studenti davvero molto motivati a fare del bene: di gente che può fare la differenza ce n’è, e il mondo ha bisogno di noi, che siamo i medici del futuro. Non è fondamentale arrivare alla fine della specializzazione per portare un po’ di conforto ad un mondo che ne ha così tanto bisogno. E, in fondo, mi piace sperare che chi studia medicina voglia effettivamente fare qualcosa di concreto per migliorare la vita delle persone.»
In bocca al lupo Giulia, per una vita splendida, una carriera che ti meriti, e un mondo che ti aspetta per emozionarti come tu desideri!