La medicina potrebbe davvero diventare il primo campo di piena applicazione della parità di genere. Non si tratta solo una battaglia per un giusto principio di uguaglianza, ma in questo caso di un vero e proprio dettame imposto dalla scienza, alla luce delle evidenze emerse negli ultimi 30 anni grazie alla medicina di genere. L’Organizzazione Mondiale della Sanità la definisce come “lo studio dell’influenza delle differenze biologiche, socio-economiche e culturali (definite dal genere di un individuo) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona”. Il concetto stesso nasce di fatto come risposta alla necessità di colmare le disparità di genere nel campo applicativo della ricerca medico-scientifica.
La parità è quindi intesa come una necessità in questo contesto, prima ancora che un diritto. Ad un certo punto della storia – per la verità in tempi anche piuttosto recenti – ci si è resi conto infatti che la medicina è stata sempre tarata principalmente sul genere maschile e che quello femminile sia invece molto spesso sotto-rappresentato nelle statistiche e nei risultati delle ricerche. A notare per prima questa discrasia (cosiddetta gender blindness, cioè cecità di genere, che può indurre a valutazioni errate da parte dei ricercatori) fu la cardiologa americana Bernardine Healy, che negli anni ‘90, durante l’analisi di una ricerca sulle malattie cardiovascolari, coniò proprio il concetto e il termine di medicina di genere.
Come evidenziano anche Barbara Tavazzi e Francesca Klinger, Professoresse rispettivamente di Biochimica e di Istologia in UniCamillus, attive nel loro lavoro di ricerca proprio in questo campo: «La medicina di genere (MdG) suscita un interesse sempre crescente, perché in effetti tutta la prassi medica è codificata da fondamentali linee guida ottenute da studi sperimentali e clinici, anche di notevole portata, condotti con una impostazione androcentrica. La medicina di genere non vuole solo porre l’attenzione del mondo scientifico sulle patologie che incidono più frequentemente sull’uno o l’altro sesso, ma vuole instaurare un cambiamento che non riguardi soltanto la prassi clinica, quanto l’approccio metodologico stesso della ricerca scientifica. La medicina di genere non è, quindi, una nuova specialità, ma una necessaria e doverosa dimensione interdisciplinare della medicina».
In questo caso la questione di fondo della parità di genere non mette in discussione storture sistemiche come i diversi salari tra uomini e donne o il fatto che ci siano più uomini a ricoprire cariche apicali, anche nella sanità, rispetto alle donne. Si tratta di una problematica che intacca in maniera significativa la tutela della salute delle singole persone. Tanto nella sfera epidemiologica, quanto nel campo clinico e sperimentale sono notevoli le differenze colte ed esaminate nell’insorgenza, progressione e manifestazioni delle malattie, anche le più comuni, tra uomini e donne. Il che aiuta a spiegare il perché, ad esempio, nonostante le donne siano mediamente più longeve degli uomini, in Italia e in molti altri paesi occidentali l’aspettativa di “vita sana” è sostanzialmente equivalente.
«La MdG ha moltissime branche di applicazione scientifica e clinica in cui si può sviluppare – spiegano ancora le due docenti di UniCamillus – ma per ciascuna devono essere considerati innumerevoli aspetti. Il genere influisce sulla fisiologia, fisiopatologia e patologia umana, cioè su come si sviluppano le patologie, con quali sintomi e come si fanno prevenzione, diagnosi e terapie negli uomini e nelle donne. In farmacologia, ad esempio, fondamentali sono fattori come le variazioni ormonali che sussistono tra i due sessi, ma anche le diversità di peso, composizione corporea, acidità gastrica e tutto ciò che possa influenzare l’assorbimento e l’efficacia dei farmaci, ma anche una maggiore o minore tossicità del farmaco nei soggetti. Anche la cardiologia, le malattie cardiovascolari, l’immunologia, la patologia dell’apparato scheletrico, e l’oncologia sono ulteriori settori in cui la MdG può avere particolari applicazioni e dare risultati utili nel corretto approccio clinico. Secondo una visione globale del concetto di salute, grazie alla MdG si può arrivare ad avere un’erogazione di cure che considerino la personalizzazione delle terapie nella valutazione e gestione delle patologie, tenendo conto anche l’identità di genere, l’età, l’etnia, il livello culturale, le condizioni psico-sociali e i fattori socio-economici».
Arrivare ad una piena parità di genere in medicina non è quindi solo un obiettivo per aiutare la società ad avanzare nel campo del riconoscimento dei diritti. È prima di tutto un bisogno che ha la scienza medica per fare passi avanti per il bene di tutti. «La medicina di genere – concludono la Professoressa Klinger e la Professoressa Tavazzi – non può prescindere da una sempre maggiore attenzione all’inclusione e alla parità, a partire dalla ricerca pre-clinica, dagli studi in laboratorio, fino all’applicazione clinica. La fase di disegno degli studi diventa perciò fondamentale per garantire una raccolta di dati disuniti, che portino a risultati di qualità e che tengano realmente in considerazione le differenze tra i partecipanti agli studi. Tuttavia, perseguire sempre un arruolamento bilanciato di uomini e donne renderebbe la ricerca più complessa, perché aumenterebbe la mole di lavoro per il personale dedicato e i costi. Ed è, quindi, importante che i ricercatori si confrontino tra loro sulle migliori strategie e i migliori metodi di lavoro, per rendere la ricerca clinica sempre più inclusiva. Anche gli enti privati devono iniziare ad affrontare questo problema, richiedendo che tutte le proposte includano un’analisi intersezionale di sesso e genere. Molta è la strada ancora da fare per ridurre il divario. Il primo passo è riconoscere che, colmandolo si può finanziare una scienza di qualità superiore, che può fare davvero la differenza per le donne e per gli uomini».