Come si rende una lezione interessante o addirittura irresistibile? Come si trasmette agli studenti l’amore per la professione e la passione per lo studio? Come si possono trasmettere motivazioni e stimoli alla crescita professionale attraverso una valutazione equa? Domande che in passato pochi docenti sono stati abituati a porsi poiché non si metteva in discussione il metodo dei maestri. Il sistema formativo in Italia, sin da tempo immemore, è rimasto imperniato su schemi classici di lezione frontale, oggi unanimemente considerata meno efficace di altri metodi più interattivi e coinvolgenti. Non che in passato la scuola medica nazionale non avesse portato degli ottimi risultati, basti considerare gli svariati premi Nobel per le scienze biomediche che costituiscono il nostro prestigioso palmares.
In UniCamillus, per iniziativa della professoressa Federica Wolf, delegato del Rettore alla pedagogia medica, si è deciso di provare a modernizzare l’approccio allo studio delle discipline biomediche, nel tentativo di essere più idonei ed efficaci per gli studenti della generazione Z.
Titolare della cattedra di Patologia Generale nei corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e in Odontoiatria e Protesi Dentaria, la Professoressa Wolf ha organizzato da maggio a ottobre, un ciclo di 10 incontri per docenti in presenza che affrontino le tematiche della pedagogia biomedica. Teaching Methodology Academy il titolo di questo progetto che pone come obiettivo quello di contribuire a far permeare ai nostri docenti la consapevolezza che esistano modelli di insegnamento diversi, oltre quelli tradizionalmente applicati, che siano più idonei all’attuale formazione universitaria e professionale.
“Diciamo ai professori di mettersi in gioco – ha spiegato la Professoressa – di tornare sui banchi per interrogarsi su come rendere più efficace il proprio approccio didattico e migliorare i risultati, non solo di gradimento da parte degli studenti, ma anche di profitto”.
L’avanzamento tecnologico ha cambiato drasticamente negli studenti il modo di apprendere le nozioni?
“Sì. I ragazzi di oggi sono abituati a studiare in maniera diversa da quella in cui studiavamo noi. Non hanno più come unico riferimento i libri di testo che il professore più o meno magistralmente riassumeva e proponeva a lezione. Dobbiamo considerare che oggi gli studenti hanno a disposizione sul web una vastissima letteratura scientifica sia come testi che come monografie o articoli su riviste specifiche, in quanto la maggioranza della letteratura scientifica è open access, cioè liberamente accessibile a tutti senza l’accesso tramite biblioteche universitarie provviste di abbonamenti alle diverse riviste scientifiche. Una volta il professore eseguiva una sintesi del testo, spiegava i punti fondamentali e proponeva una lezione che lo studente avrebbe successivamente studiato, e in alcuni casi approfondito. Questo approccio viene oggi considerato un apprendimento passivo, poiché il professore proponeva la sua sintesi e la sua interpretazione. Oggi i ragazzi potrebbero, semplicemente consultando internet, accedere a qualsiasi libro di testo, all’ultimo articolo sull’argomento o anche a diapositive e lezioni pubblicate da altri professori, italiani o stranieri”.
Come si affronta questo dal punto di vista del docente?
“Certo, infatti per affrontare questa problematica è nata una disciplina specifica che insegna la metodologia della ricerca scientifica. Questa disciplina chiarisce il percorso logico e metodologico della ricerca scientifica. Lo studente impara come trovare informazioni attendibili o addirittura le più autorevoli; cosa si deve aspettare dai diversi tipi di articoli scientifici, come verificarne la solidità scientifica; come disegnare e programmare un progetto scientifico, come presentare dati scientifici in forma scritta o orale. Lo studente deve conoscere questi principi fondamentali per poter correttamente interpretare quello che legge, focalizzarsi sulla ipotesi dell’autore e giudicare la solidità dei dati a supporto dell’ipotesi. Questi sono argomenti che si affrontano negli ultimi anni di studio, quando gli studenti si avvicinano alla elaborazione della tesi di laurea. Qui in UniCamillus affrontiamo la metodologia scientifica al quinto anno di corso, per guidare gli studenti alla consultazione della letteratura scientifica e la selezionare delle informazioni importanti per la elaborazione della tesi di laurea. La tendenza attuale è di anticipare questa formazione agli anni precedenti proprio in considerazione del libero accesso alle informazioni scientifiche e per incentivare la curiosità e l’auto-apprendimento. Individuando il momento giusto nel corso degli studi, gli studenti capiranno che l’aggiornamento scientifico, che avanza a ritmi sempre più incalzanti, è un argomento fondamentale che li accompagnerà per tutta la carriera professionale”.
Va bene, ma in cosa consiste, quindi, e come si portano avanti i cambiamenti del metodo nell’insegnamento?
“Stimolando la proattività degli studenti stessi. L’abbandono della lezione frontale, significa che il professore non è più colui che trasmette il proprio sapere allo studente, il quale passivamente lo assimila, o almeno si presume che dovrebbe farlo. Oggi, nella misura in cui lo studente è nelle condizioni di trovare da sé le informazioni, il docente deve prediligere i metodi student centered, che permettano ai propri discenti di costruire il sapere sulla base di esempi paradigmatici che stimolino la loro curiosità e insegnino loro il metodo più efficace per costruire il proprio sapere. Il professore, sulla base della sua esperienza e conoscenza, guiderà il precorso razionale e i dettagli necessari a costruire il processo di apprendimento. Infine, la valutazione dell’apprendimento (l’esame, ndr) si svolgerà in modo da verificare che lo studente abbia appreso le nozioni, ma anche che le sappia applicare praticamente”.
Un cambio drastico di mentalità, oltre che di metodo, sia per i docenti, sia per gli studenti stessi, quindi.
“Esatto. Questo corso vuole dare ai Colleghi degli spunti per modernizzare le proprie lezioni, perché è chiaro che un cambiamento così radicale non può svolgersi in tempi brevi. Un docente deve avere la possibilità di conoscere metodi alternativi alla lezione frontale deve sperimentare dei sistemi che stimolino l’attenzione e la curiosità degli studenti. D’altronde i dati circa l’efficacia dell’apprendimento parlano chiaro: oggi uno studente nell’arco di una giornata di 8 ore di lezione ha inevitabilmente un calo drastico dell’apprendimento molto prima dell’ottava ora. La cosiddetta generazione Z, sin dall’inizio del percorso scolastico è abituata ad apprendere in maniera diversa da quella a cui eravamo abituati noi. E’ necessario un cambiamento che tenga conto di questo aspetto generazionale. Inoltre, c’è l’aspetto pratico: l’ideale per stimolare l’interattività docente-discente sarebbe lavorare con gruppi di 20-30 studenti, situazione che richiede una organizzazione completamente diversa dall’attuale, dove anche laddove un corso venga diviso in canali, potremmo dover gestire gruppi di alcune centinaia di studenti. Ovvio che con grandi gruppi è molto più difficile stimolare e controllare il coinvolgimento attivo di ciascun partecipante. Durante il corso sono stati illustrati metodi interattivi utilizzabili anche con grandi gruppi, quali sistemi di rilevazione di domande-risposte tramite applicazioni quali mentimeter, wooclap, Poll Everywhere, etc. Strategie per dividere anche le grandi classi in gruppi di lavoro che possono confrontarsi o competere su una domanda, un caso clinico o una decisione da prendere. Strano a immaginarsi ma ci sono metodi per trasformare l’apprendimento in gioco, la gamification. Ma….perché no, se funziona?”
Quali sono le reazioni dei professori che frequentano questo corso, relativamente al fatto di dover mettere in discussione i propri metodi tradizionali di insegnamento?
“C’è da rilevare che corpo docente di UniCamillus è molto eterogeneo. Ci sono persone con una certa esperienza sia di ricerca, sia di insegnamento, ma anche tanti professori molto giovani che, pur essendo degli ottimi professionisti, hanno poca esperienza didattica. C’è chi è un ottimo medico o chi è stato in prestigiosi laboratori di ricerca, ma non ha esperienza in aula. E’ interessante notare che, nonostante le differenze di età, di esperienza, di formazione, le reazioni sono state piuttosto univoche: interesse per questa disciplina e curiosità per i metodi innovativi descritti. Ovvio che c’è sempre qualcuno che ritiene di non voler cambiare ciò che fa e funziona da tanti anni, ma la maggior parte passano dalla curiosità alla voglia di sperimentare, mostrandosi ben disposti a rivedere le loro lezioni. In fondo, quasi tutti ci lamentiamo che gli studenti non vengono a lezione, che sono distratti, che è difficile coinvolgerli e metterli in condizione di esprimere le loro potenzialità. Perché non provare quindi metodi alternativi. Pensiamo al successo che ha avuto l’esperienza del IPE Days (Inter Professional Education, ndr) dove diverse figure professionali lavoravano insieme a dei casi clinici: in quella occasione si sono dati tutti da fare, alcuni hanno insegnato ad altri, si è appreso dall’infermiere piuttosto che dall’anestesista o dal dietologo o dallo psicologo. Questa è stata per gli studenti la prima esperienza del lavoro di gruppo (Team working), la metodologia più diffusa nell’ambito biomedico. Il mio obiettivo primario nell’organizzazione di questo percorso è quello di mostrare ai colleghi che si può insegnare aggiornando la tradizionale lezione frontale e che esistono metodi di insegnamento più efficaci. Nel nostro corso sono esperti italiani di pedagogia medica (i Professori Fabrizio Consorti e Oliviero Riggio) che ce lo illustrano magistralmente. Colleghi che da anni hanno sperimentato l’utilizzo dei casi clinici, delle flipped classroom, degli esempi pratici, del problem solving singolari o di gruppo. Questi incontri dovrebbero ispirare i docenti a modernizzare le lezioni tradizionali, a sperimentare nuovi metodi di apprendimento, a stimolare la partecipazione attiva degli studenti. Questo corso è un primo passo importante poiché il tema viene affrontato in maniera organica e completa attraverso i 10 moduli in presenza. Mi rendo conto che il cambiamento è molto complesso, non solo i docenti ma anche gli studenti devono cambiare, lavorando durante la lezione e non contare esclusivamente sulle slides del professore, che possono acquisire anche dai colleghi o sulla WebApp, come e quando vogliono. Devono diventare parte attiva del processo di apprendimento a lezione, con il professore. Sono certa che questo approccio renderebbe più sopportabile se non stimolante una giornata di 8 ore di lezione. Noi docenti dobbiamo essere capaci di trainarli verso questo cambiamento. Certo, è una bella sfida”.
All’estero si praticano già queste metodologie alternative di insegnamento?
“Si, in diverse parti del mondo e con varie sfumature. Soprattutto nei paesi nord-europei, quali Regno Unito, Olanda, Belgio, negli Stati Uniti e in Canada, ma il processo di modernizzazione è in atto anche in Francia, Germania e Spagna. Noi siamo un po’ in ritardo, e dobbiamo dare merito all’ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione della Università e della Ricerca, ndr) di averci guidati verso questo aggiornamento. Va comunque sottolineato che lo studente italiano è molto apprezzato all’estero per il solido bagaglio delle sue conoscenze. Non possiamo negare che in Italia c’è una importante tradizione nell’insegnamento della medicina, anche se più nozionistica che pratica, ma sicuramente riconosciuta in tutto il mondo. Comunque, a prescindere dalle eccellenze, come ne conosciamo tante, il problema attuale è di formare una classe medica adeguata ai nostri giorni e in armonia con gli altri stati europei e a livello globale. A questo punto sorge spontanea una domanda: il medico di oggi cosa deve sapere e cosa deve saper fare? E qui potremmo aprire un altro tema molto attuale, oggetto di dibattiti e discussioni. Ma il punto cruciale che ci interessa oggi è di raggiungere degli obiettivi chiari e ben definiti, nell’ambito delle triade delle competenze: il sapere, il saper essere e il saper fare”.
L’ideale allora forse sarebbe integrare le due metodologie?
“L’ideale sarebbe non rinunciare alla tradizionale medicina del sapere, integrata adeguatamente con il saper essere e il saper fare. Questo processo va iniziato fin dai primi anni attraverso esperienze di medicina pratica, simulazioni o manichini, e successivamente con il malato. Ciò si può ottenere trasformando le lezioni frontali, per definizione passive, con lezioni interattive che aiutino lo studente a percepire l’importanza pratica delle conoscenze, a sperimentare da subito l’applicazione delle conoscenze. Ce lo definiscono molto bene i 5 descrittori di Dublino (gli obiettivi da raggiungere durante gli studi universitari per l’acquisizione di un titolo professionale: laurea triennale, specialistica, dottorato, ndr) che ci guidano nella stesura dei programmi di studio, come syllabus, nella descrizione dei corsi e dei relativi obiettivi didattici. Nel nostro corso di teaching methodology c’è la professoressa Angela Giusti una pedagogista, che è anche una nostra docente, la quale spiega che l’esperienza pratica, lo sperimentare dello studente rappresenta uno strumento molto più efficace di apprendimento. Già: l’esperienza, il vissuto, fanno scuola. E se riusciremo ad attivare l’apprendimento attivo dei nostri futuri medici ed operatori sanitari, inevitabilmente saremo in grado di formare professionisti più consapevoli e qualificati”.