UniCamillus celebra la Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza: le testimonianze di due ricercatrici, tra soddisfazioni e ostacoli da superare

La ricerca è prima di tutto passione. Lo assicura un’eccellenza di UniCamillus, la Professoressa Maria Rosaria Capobianchi, docente di Biologia Molecolare nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, intervistata in occasione della Giornata Internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza che ricorre l’11 febbraio.

“Il lavoro della ricerca – racconta l’eminente scienziata e Cavaliere al merito della Repubblica per il servizio dato alla comunità durante la pandemia di Covid-19 – è gratificante, perché permette, attraverso l’impegno e il sacrificio, di realizzare pensieri e immaginazioni. Tutti i miei mentori mi hanno insegnato che la ricerca non è un gioco. È una cosa seria, che ti permette di realizzare quello che immagini. Stare in un laboratorio è un privilegio perché ti dà l’opportunità di mettere in pratica quello che hai in mente”. In realtà, serve anche tanta caparbietà per portare avanti le proprie idee. E gli esordi della Professoressa Capobianchi lo testimoniano, come lei stessa racconta col sorriso: “Il mio primo professore responsabile di laboratorio, quando iniziai la mia carriera, nel 1977, mi disse che ero sfortunata, perché secondo lui nella biologia era già stato scoperto quasi tutto! (ride, ndr). Sembra una barzelletta a raccontarlo oggi. Figuriamoci, dagli anni ‘70 la scienza ha messo in discussione tutti i dogmi, aprendo vie che all’epoca nemmeno si pensavano!”

Oggi la Professoressa cerca di trasmettere il più possibile alle nuove generazioni di medici e ricercatori il valore e la bellezza del sapere. Lo fa in un’Università giovane come la nostra, dove ha trovato un ambiente che pone davvero il merito e la passione al centro di tutto, senza pregiudizi né limitazioni. Al piacere della scoperta però, non può nasconderlo nel suo racconto di vita, faranno sempre da contraltare le numerose difficoltà che i ricercatori devono imparare a superare: “Il lato frustrante è cercare finanziamenti, affrontare orari pesanti e vedere a volte poco riconosciuto il proprio impegno”. E poi c’è la necessità di viaggiare molto e stare lontani dalla propria famiglia. Oggi, con le tecnologie a disposizione è più facile, ma nemmeno troppi anni fa era inevitabile girare il mondo per partecipare conferenze e altri lavori. 

La Professoressa Capobianchi ha affrontato tutti questi ostacoli, che per una donna sono stati (e lo sono tuttora per molte sue colleghe) ancora più grandi. Sulla sua pelle ha vissuto tutta l’evoluzione del ruolo di una donna nella ricerca in Italia dell’ultimo mezzo secolo. “Le difficoltà – spiega –  sono quelle di tutte le donne che lavorano. La ricerca non ti consente di avere degli orari e molte cose non si possono programmare. Questo si scontra con quella visione della donna, che dovrebbe occuparsi di figli e casa. Infatti le mie grandi difficoltà sono iniziate quando ho avuto i miei due figli. Mi sono allontanata dal laboratorio, anche se per breve tempo, e poi ho avuto difficoltà a rientrare, nonostante io sia stata fortunata ad avere un marito e una famiglia che mi hanno sempre aiutato quando hanno potuto”.

Situazioni che, duole constatare, in 50 anni non sono cambiate più di tanto. Lo testimonia un’altra Professoressa di UniCamillus, Sabina Di Matteo, docente di Patologia Generale in UniCamillus, sia a Roma, sia a Venezia. La sua carriera da ricercatrice, in ambito oncologico, è iniziata da poco più di un decennio, sotto la spinta di profonde motivazioni personali e familiari. Ma anche lei si è presto scontrata purtroppo con l’inconciliabilità tra un lavoro precario e la maternità. Il vedersi sempre considerata un passo indietro rispetto agli uomini invece lo aveva tristemente messo in conto sin da subito, perché – racconta – “Tutti i miei capi progetto sono stati sempre uomini e comunque non è affatto raro veder proporre borse di studio, anche da importanti istituti di ricerca, prima agli uomini e poi, se avanza, alle donne. E questo a prescindere dai titoli; si potrebbe pensare infatti che la scienza sia più oggettiva e invece in ancora troppe realtà non è così”. UniCamillus, orgogliosamente, non è tra queste.

“La mia attività di ricerca – spiega ancora la Professoressa Di Matteo – l’ho ripresa di recente anche grazie a UniCamillus, dove ho trovato un ambiente più dinamico e con mentalità più aperta. Ma tante mie colleghe non sono state fortunate come me”. L’esempio del nostro Ateneo è uno di quei segnali che un cambiamento è possibile, soprattutto facendo leva sulle nuove generazioni; ma, avverte sempre la Professoressa Di Matteo, riferendosi alle delusioni vissute in passato: “Per innescare un processo di cambiamento che sia duraturo e porti risultati bisogna iniziare a parlarne seriamente e dare seguito alle tante iniziative che vengono prese”.