C’è un momento nella vita professionale di un docente che va oltre il riconoscimento accademico o la gratificazione personale: è quando il proprio lavoro viene visto, compreso e apprezzato da colleghi di tutto il mondo. Per il Prof. Angelo Giovanni Icro Maremmani, Professore Associato di Psichiatria presso l’Università UniCamillus, quel momento è arrivato a Praga, durante la cerimonia inaugurale del 25mo Congresso Mondiale di Psichiatria – organizzato dalla World Psychiatric Association – quando ha ricevuto il premio “In the Footsteps of Pedro Ruiz”.
Si tratta di un riconoscimento internazionale assegnato ai giovani psichiatri che si sono distinti nel trattamento dei disturbi duali: condizioni complesse in cui una patologia psichiatrica si intreccia con un disturbo da uso di sostanze, creando sfide cliniche, relazionali e umane straordinarie. Non si tratta di curare due problemi separati, dunque, ma di comprendere una persona nella sua interezza, fragilità, sofferenza e resilienza.
Il premio, dedicato al Prof. Pedro Ruiz, fondatore della World Association on Dual Disorders (WADD) e punto di riferimento internazionale per la psichiatria, porta con sé anche un’eredità umanistica: Ruiz ha mostrato al mondo che la psichiatria non è fatta solo di diagnosi e protocolli, ma anche di empatia, ascolto e visione integrata della persona. Riceverlo significa quindi entrare in una tradizione che unisce rigore scientifico e cura profonda del paziente: un connubio di scienza e umanità che nell’Università UniCamillus conosciamo bene, grazie all’insegnamento di Camillo De Lellis.
Per il Prof. Maremmani, il riconoscimento è la testimonianza di anni di lavoro quotidiano tra ricerca, formazione e pratica clinica. Un lavoro che cerca di dare voce a chi soffre di disturbi duali e di trovare percorsi terapeutici efficaci e personalizzati.
In questa intervista, il Prof. Maremmani racconta le emozioni legate a questo prestigioso riconoscimento, spiega cosa significa davvero trattare i disturbi duali e condivide i momenti che hanno segnato il suo percorso. È un racconto che parla di scienza, ma soprattutto di persone, di ascolto e di passione per una disciplina che, giorno dopo giorno, cerca di trasformare la cura in un vero atto di umanità.
Cosa ha provato nel ricevere il premio “In the Footsteps of Pedro Ruiz” al Congresso Mondiale di Psichiatria di Praga?
«È stata un’emozione davvero intensa. Si tratta di un riconoscimento rivolto ai medici sotto i 45 anni che si sono distinti nel campo della psichiatria, e riceverlo durante la cerimonia inaugurale del Congresso Mondiale di Psichiatria, davanti a colleghi provenienti da tutto il mondo, è stato un momento che difficilmente potrò dimenticare. Il professor Pedro Ruiz è stato una figura di riferimento internazionale, non solo per i suoi contributi scientifici ma anche per la sua visione umanistica della psichiatria: un modello che continua a ispirare chi, come me, cerca di integrare la dimensione biologica, psicologica e sociale nella cura dei pazienti.»
Cosa si intende per “disturbo duale”?
«Con “disturbo duale” si intende la coesistenza di un disturbo psichiatrico e di un disturbo da uso di sostanze. Non si tratta semplicemente della somma di due diagnosi, ma di una condizione unica, in cui i sintomi psichiatrici e quelli legati all’uso di sostanze si intrecciano profondamente, influenzandosi a vicenda e seguendo un’unica traiettoria evolutiva. È una delle principali sfide della psichiatria moderna perché la sua prevalenza è altissima: fino al 70% dei pazienti con disturbi psichiatrici gravi presenta anche un uso problematico di sostanze. Questo richiede un approccio terapeutico integrato, capace di affrontare contemporaneamente entrambe le dimensioni, quella della salute mentale e quella della dipendenza, superando la tradizionale separazione tra i due ambiti.»
Quali sono le principali difficoltà che ancora si incontrano nel riconoscere e trattare efficacemente questi disturbi?
«Le difficoltà principali riguardano prima di tutto l’organizzazione dei servizi. Ancora oggi, in Italia come in molti altri Paesi, la salute mentale e le dipendenze vengono gestite in ambiti separati: da un lato i centri di salute mentale, che si occupano dei disturbi psichiatrici, e dall’altro i servizi per le dipendenze, dedicati ai disturbi da uso di sostanze. Questa divisione amministrativa e clinica non riflette però la realtà dei pazienti, che spesso presentano entrambe le problematiche in modo intrecciato. La conseguenza è che molti di loro rischiano di non ricevere un trattamento realmente integrato. Per affrontare efficacemente il disturbo duale è quindi fondamentale promuovere una collaborazione strutturata tra i due sistemi, ma anche una formazione condivisa: gli psichiatri che lavorano nei diversi setting devono possedere un linguaggio comune e competenze trasversali, per poter costruire percorsi terapeutici centrati sulla persona e non sulla diagnosi prevalente.»
Non è un disturbo particolarmente noto, almeno tra i profani. È un’ignoranza solo italiana? Come si colloca l’Italia nella gestione clinica di questo disturbo rispetto al panorama internazionale?
«In diversi Paesi esiste già una disciplina universitaria autonoma, la Medicina delle Dipendenze, che forma i futuri medici e psichiatri ad affrontare in modo integrato il disturbo duale. Purtroppo, in Italia questa specialità non è ancora riconosciuta come area accademica indipendente, e questo si traduce in una mancanza di formazione specifica e omogenea a livello nazionale. Ne deriva che molti professionisti arrivano a occuparsi di disturbi complessi senza una preparazione neurobiologica e clinica adeguata per comprendere l’interazione tra disturbo mentale e uso di sostanze. È una lacuna importante, perché il disturbo duale rappresenta ormai una delle sfide più frequenti nella pratica psichiatrica. Colmare questo gap formativo e culturale significherebbe allineare l’Italia agli standard internazionali e offrire ai pazienti percorsi di cura più efficaci e coerenti con le evidenze scientifiche.»
Quali sono le prospettive future per ciò che riguarda la ricerca e il trattamento? E le sue prospettive future, intese come “sua” ricerca personale in tal senso?
«La sfida del futuro sarà formare un numero sempre maggiore di professionisti della salute mentale con competenze di base in medicina delle dipendenze. È fondamentale che psichiatri e operatori dei servizi per le dipendenze condividano un linguaggio comune e una visione integrata, così da poter leggere e trattare il disturbo duale come un’unica condizione complessa, e non come la somma di due patologie distinte. Purtroppo, a livello universitario mancano ancora percorsi formativi strutturati all’interno dei corsi di laurea in Medicina e delle Scuole di Specializzazione in Psichiatria. Proprio per questo, nel nostro piccolo, cerchiamo di colmare questa lacuna attivando iniziative dedicate alla formazione dei giovani colleghi. Un esempio è il Master di II livello in Medicina delle Dipendenze che coordiniamo presso UniCamillus: un percorso che, di anno in anno, riscontra un interesse crescente, segno della necessità di acquisire strumenti concreti per affrontare nella pratica clinica i complessi bisogni dei pazienti con disturbo duale. Dal punto di vista della ricerca, il mio impegno continua a concentrarsi sullo studio delle interazioni tra disturbi psichiatrici e uso di sostanze, con particolare attenzione ai meccanismi neurobiologici e alle traiettorie cliniche che possano guidare verso trattamenti più mirati ed efficaci.»
È stato premiato per il suo lavoro nel trattamento di questo disturbo. Può sintetizzarci il suo approccio (se possibile!)
«Il mio approccio nasce da un interesse clinico e di ricerca che coltivo sin dai tempi della specializzazione, rivolto alle popolazioni cosiddette “speciali”, in cui l’uso di sostanze e la psicopatologia si intrecciano fino a formare un quadro unico. Mi ha sempre affascinato osservare come gli effetti a lungo termine delle sostanze d’abuso si sovrappongano a costrutti psicopatologici di base, modificandone l’espressione clinica. Ritengo fondamentale partire sempre da una diagnosi accurata e da una lettura complessiva della persona, per poi costruire un percorso terapeutico che segua una logica sequenziale e integrata. Spesso il primo passo consiste nello stabilizzare il disturbo che maggiormente condiziona la vita del paziente, per poi affrontare gli altri aspetti in modo coerente. Un esempio tipico è quello di un soggetto con disturbo bipolare e abuso di cocaina: trattare separatamente l’instabilità dell’umore e la dipendenza risulta inefficace, perché la cocaina stessa agisce come un potente destabilizzante dell’umore. È in questi casi che un approccio olistico, capace di integrare competenze psichiatriche e di addiction medicine, diventa la chiave per ottenere risultati clinici reali e duraturi.»
Esiste un unico percorso terapeutico per affrontare il disturbo duale, o dipende dall’individuo?
«È una domanda molto complessa, perché non esiste un unico percorso terapeutico valido per tutti. Ogni persona con disturbo duale rappresenta un caso a sé, con una propria storia clinica, un diverso livello di consapevolezza e motivazione al cambiamento. In linea generale, il trattamento coinvolge due equipe professionali distinte: da un lato lo psichiatra che opera nei servizi di salute mentale, dall’altro lo specialista che lavora nei servizi per le dipendenze. Questa separazione riflette l’organizzazione attuale del sistema sanitario, ma spesso non corrisponde ai bisogni reali del paziente, che avrebbe invece bisogno di un intervento unitario e coordinato. Un altro aspetto cruciale è proprio la consapevolezza di malattia: molti pazienti con disturbo duale non percepiscono pienamente la necessità di curarsi, soprattutto nelle fasi iniziali. Solo col tempo, quando la patologia si complica e interferisce sempre più con la vita quotidiana, cresce la disponibilità ad affrontare un percorso di cura strutturato. Per questo, la costruzione dell’alleanza terapeutica e la personalizzazione del trattamento restano elementi centrali per ottenere risultati duraturi.»
Quale aspetto del suo lavoro, secondo lei, le ha fatto ottenere questo riconoscimento?
«Credo che un ruolo determinante lo abbia avuto la continuità con cui, fin dai tempi della specializzazione, mi sono dedicato allo studio e al trattamento dei disturbi correlati all’uso di sostanze e del disturbo duale. Aver potuto lavorare a stretto contatto con tanti pazienti mi ha permesso di comprendere, insieme a loro, dinamiche cliniche e comportamentali che spesso sfuggono all’osservazione teorica. La componente clinica, quella quotidiana, è sempre stata il cuore del mio lavoro: è lì che nascono le domande di ricerca più autentiche. Allo stesso tempo, questo riconoscimento non è solo personale:rappresenta il risultato del lavoro di un intero gruppo di ricerca con cui ho condiviso e continuo a condividere questo percorso. Senza la collaborazione e il confronto continuo con i colleghi, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile.»
Come mai si è dedicato così tanto a questo disturbo? Può raccontarci un aneddoto, un momento o una scoperta che ha rappresentato per lei un punto di svolta in tal senso?
«Fin dall’inizio della mia attività clinica ho provato un forte interesse per questi pazienti, spesso considerati “difficili” o “poco collaborativi”. In realtà, dietro questa complessità c’è una profonda sofferenza e una ricca dimensione umana che meritano ascolto e comprensione. Ricordo che, agli inizi della mia esperienza, chiedevo sempre ai pazienti perché avessero cominciato a usare sostanze. Molti rispondevano, con grande sincerità, che lo facevano semplicemente per il piacere che ne derivava. Questa risposta, apparentemente semplice, mi colpì profondamente: mi fece comprendere quanto il comportamento di consumo non fosse solo un atto volontario o morale, ma l’espressione di un’alterazione di circuiti neurobiologici profondi, legati al sistema della ricompensa e alla neuroplasticità. Da quel momento ho sentito l’esigenza di studiare il disturbo da uso di sostanze e il disturbo duale come vere e proprie malattie del cervello, dotate di una dignità clinica e fisiopatologica pari a quella di qualsiasi altra condizione medica, come il diabete o le malattie cardiovascolari. È stata questa consapevolezza a rappresentare per me il punto di svolta e a guidare tutto il mio percorso successivo di ricerca e cura.»
Parlando di contesto accademico: in che modo l’ambiente universitario può contribuire a far crescere la consapevolezza su temi complessi come il disturbo duale?
«Oggi, nel panorama scientifico nazionale, esistono società scientifiche che si occupano prevalentemente di psichiatria e altre che si concentrano sul mondo delle dipendenze, ma manca ancora una reale integrazione tra questi due ambiti. A livello accademico, dovremmo impegnarci a valorizzare il disturbo duale come area di studio autonoma, capace di unire competenze e prospettive invece di mantenerle separate. In questo senso, il ruolo dell’università è cruciale: può promuovere cultura, formazione e ricerca su un tema che, pur essendo di grande impatto clinico e sociale, è ancora poco rappresentato nei percorsi formativi. Sono particolarmente orgoglioso di presiedere la sezione italiana della World Association on Dual Disorders (WADD-Italia), che rappresenta la rete nazionale di un gruppo internazionale impegnato proprio nella diffusione della conoscenza scientifica e nella promozione di buone pratiche cliniche in questo campo. Guardando al futuro, mi piacerebbe che nei prossimi dieci anni le università italiane possano dedicare uno spazio specifico e stabile allo studio del disturbo duale, offrendo a tutti i futuri medici (specialisti e non) un vocabolario comune e strumenti di base per riconoscere e affrontare questa complessa condizione. Anche i medici di medicina generale, infatti, sono spesso i primi a intercettare questi pazienti e devono poter contare su una formazione adeguata per avviarli ai percorsi di cura più appropriati.»
Il Prof. Angelo Giovanni Icro Maremmani insegna Psichiatria al IV anno di Odontoiatria e Protesi Dentaria e al II anno di Fisioterapia presso l’Università UniCamillus. Inoltre, è Docente presso il Master di II livello in Medicina delle Dipendenze presso lo stesso Ateneo, a partire dall’anno accademico 22-23



